Scheda risorsa
Sito web
Archilet
Tipo risorsa
Lettera
Autore
Tasso, Torquato
Titolo
Lettera a Francesco Maria Della Rovere
Data
[Urbino], [settembre 1578]
Descrizione
Torquato Tasso rinnovando a Francesco Maria II Della Rovere la sua profonda devozione, afferma di distinguersi dagli altri suoi servitori che non lo onorano diversamente o di più di un altro principe, sminuendo così le sue virtù e meriti peculiari. Perciò Tasso incita Francesco Maria a disprezzare chi lo riduce al "volgo de' principi, come già si disse la plebe de gli dei" [citazione da 'Aminta', Prologo, v. 4], poiché lui è uno dei pochi principi in Europa in cui si trovino insieme "la potenza con la sapienza". Tasso afferma dunque che si rivolgerà a Francesco Maria non come i persiani e i medi coi loro sovrani Astiage o Serse, non come Calistene con Alessandro [Magno], ma come a un Alessandro [Magno] da istruire, come ad Augusto, Traiano o Vespasiano. Tasso, ponendosi ad un rango intermedio tra filosofi e plebe, e ricordando la superiorità di Francesco Maria, chiede aiuto contro le sue sventure non sulla base del semplice affetto o compassione, ma sulla base delle ragioni che la sapienza di Francesco Maria ben saprà valutare, concedendogli la sua totale protezione. Tasso racconta della sua necessaria fuga da Ferrara, del suo soggiorno a Sorrento presso la sorella [Cornelia Tasso], da dove scrisse al duca di Ferrara [Alfonso II d'Este] e alle sue sorelle [Lucrezia d'Este, Leonora d'Este] per recuperare e migliorare la sua posizione nella corte ferrarese. Ricorda però di non aver ricevuto risposte né dal duca [Alfonso II d'Este] né dalla moglie di Francesco Maria [Lucrezia d'Este], mentre Leonora [d'Este] rispose ma negativamente: perciò decise di tornare a Ferrara senza garanzie. Ricorda che, impedito lungo il viaggio, si fermò a Roma presso Masetto [monsignor Giulio Masetti] e cercò di ottenere la benevolenza del duca [Alfonso II d'Este] lodandolo per i suoi meriti, sull'esempio di Tetide [allusione all'episodio di Teti con Vulcano, Omero, 'Iliade', XVIII, vv. 428 e sgg.]. Comportandosi a metà tra Bruto e Solone, afferma che per ingraziarsi il duca [Alfonso II d'Este] confessò la propria pazzia e accettò la maldicenza di malizioso, obbedì ad ogni indicazione dell'ambasciatore Gualengo [Camillo] con la stessa costanza di Abramo, fino ad aggravare molto la sua malattia. Confessa di essere stato incostante nel nutrirsi, confidando sull'opinione antica che la salute del corpo impedisca di filosofore, e prendendo esempio da Alcibiade e Socrate, modelli di virtù ma non astemi a tavola. Tasso afferma che il duca [Alfonso II d'Este] sembrò soddisfatto del suo abituarsi alla sofferenza e alla malattia pur continuando a scrivere, e confessa di essersi affidato al duca [Alfonso II d'Este] come a un dio. Ricorda che dopo aver raggiunto da Roma Ferrara accompagnato da Gualengo [Camillo], portò a tal eccesso la manifestazione della propria devozione che il duca [Alfonso II d'Este], accertatosi che Tasso non era né pazzo né malizioso, cominciò a mostrarsi meno benevolo, anche perché influenzato dalle maldicenze su Tasso del suo consigliere [Antonio Montecatini]. Afferma di voler interrompere per vergogna la narrazione, considerando anche i due vantaggi dei suoi calunniatori [recupera una teoria sviluppata da Demostene in apertura della sua opera 'Per la corona']: la preferenza del pubblico nel biasimare piuttosto che nel lodare, e il fastidio provocato da chi loda sé stesso. Tasso però afferma di essere costretto dal suo calunniatore a lodare sé stesso per difendersi, per cui chiede a Francesco Maria, in virtù della sua sapienza, di ascoltarlo con pazienza: Tasso racconta che il duca [Alfonso II d'Este], presa coscienza delle sue vere capacità, cominciò a trattarlo con molto più riguardo, per cui Tasso temeva di attirarsi "l'invidia cortegiana". Conscio dei propri difetti e della propria modestia, Tasso afferma che avrebbe preferito piuttosto un riconoscimento pari al suo merito, e che non attaccò ma anzi cercò di pacificarsi col suo calunniatore, caduto di posizione a corte per aver affidato il suo giudizio su Tasso alle dicerie e alla "severità del ciglio filosofico", per cui si gloriava come un Atlante a sostegno dell'intera corte. Tasso afferma che fu il proprio atteggiamento a far credere falsa la propria modestia al duca [Alfonso II d'Este], che si adoperò per impedirgli di mostrare le proprie capacità fuori dalla corte, limitandolo come negli "alloggiamenti di Epicuro", a cui né Virgilio, né Catullo, né Orazio, né Lucrezio furono costretti. Tasso riconosce di avergli risposto gravemente a parole, e poiché "odia verbis aspera movi", il duca consentì "ad altri" [probabilmente il marchese Cornelio Bentivoglio, di cui il segretario Gianfilippo Magnanini consegnò le rime di Tasso ad Aldo Manuzio; e forse il marchese stesso fece fuoriuscire il poema della 'Gerusalemme liberata', per cui la lettera n.151 dell'edizione Guasti, "A me pare che l'illustrissimo signor Cornelio, padre di Vostra Signoria", del 25 marzo 1581] di impossessarsi delle proprie opere, compiute e incompiute, dedicate al duca [Alfonso II d'Este] e fatte stampare senza correzioni, attirando così le critiche di quel "sofista" o "filosofo" [forse Antonio Montecatini] su questioni ricavate dalle lettere dello stesso Tasso o riferitegli da "un fanciullo" in colloquio con Tasso ma legato anche a quel "nuovo Censorino, o per dir meglio, il novello Socrate". Tasso afferma di volersi difendere da loro, disonesti quanto Martano, se non replicando direttamente alle accuse, facendo "guerra offensiva contra le lettere e contra i costumi". Richiamando l'attenzione su chi si è impossessato dei suoi scritti, a cui non può richiederli per la superiorità di rango, spera almeno di vedersi riconosciuto il merito di quelle opere, di cui vorrebbe riavere i manoscritti per poterne disporre liberamente e rispondere alle accuse rivoltegli. Tasso racconta di come gli fosse impedito di parlare sia con il duca [Alfonso II d'Este] sia con la duchessa [Lucrezia d'Este, duchessa di Urbino], sia con Leonora [d'Este], e di come dopo tredici anni di servizio decidesse di fuggire, "quasi nuovo Biante", prima a Mantova, dove il trattamento non cambiò, ricevuto benevolmente solo dal giovane principe [Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova]; poi a Padova e a Venezia, "ancor trovando indurati gli amici", e arrivando infine nei sicuri territori del ducato di Urbino. Tasso giustifica la lunga narrazione come fonte delle ragioni per cui Francesco Maria dovrebbe prenderlo sotto la sua protezione, compiendo un atto di giustizia "universale ", poiché attraverso lui difende esemplarmente tutto il mondo della cultura e la salute del mondo cortigiano. Rinnova la sua richiesta di protezione, chiedendo a Francesco Maria di non farsi persuadere diversamente da conoscenti o dagli altri principi che hanno ingiustamente negato l'aiuto a Tasso. Ribadisce che la sapienza e la beneveolenza di Francesco Maria non hanno bisogno di argomentazioni per comprendere dov'è la giustizia, e giustifica la lunghezza della lettera come sfogo dei torti subiti con una persona fidata e comprensiva. Enumerando tutte le sventure e i torti di cui è stato vittima, tutti sfortunati frutti del suo virtuoso comportamento, Tasso ricorda di aver sopportato dignitosamente tutte le peripezie causategli da "uomo così degno d'odio", che nonostante la sua malvagità esercita ancora la sua tirannide nelle corti, tanto forte da poter forse impedire a Pendasio [Federico] di tenere lezione, e a Panigarola [Francesco] di predicare. Spera di vendicarsi contro questo "filosofo d'ingegno, ed ippocrita di costumi" vedendolo sempre consumato dall'invida, e chiude affermando di non bramare le ricchezze ma neppure di disprezzarle, perché spesso sono dono di uomini benevoli e lodabili.
URL
http://www.archilet.it/Lettera.aspx?IdLettera=8300
Nomi
  • [Mittente] Tasso, Torquato
  • [Destinatario] Della Rovere, Francesco Maria

Data indicizzazione: 11 giugno 2024